mercoledì 10 marzo 2021

Galadrien & Celeborn

 





 La camera era immersa in una tenue luce; le pareti erano verdi

ed argento e il soffitto dorato. Molti Elfi erano lì seduti. Vicino

al tronco, su due sedie sormontate da un baldacchino di rami viventi,

sedevano a fianco a fianco Celeborn e Galadriel. Si alzarono ad

accogliere gli ospiti, secondo l'usanza degli Elfi, ed anche di coloro

che fra loro venivano considerati come potenti re. Erano molto

alti, e la statura della Dama pari a quella del Signore; i loro volti

erano gravi e belli. Le vesti erano bianche, e i capelli della Dama

di un oro intenso, e quelli del Sire Celeborn d'argento, lunghi e

lucenti; nessuna traccia d'età, salvo forse la profondità dei loro

occhi, penetranti come lance, eppur impenetrabili, abissi di arcaici

ricordi.


Haldir condusse Frodo al loro cospetto, ed il Signore gli diede

il benvenuto nella propria lingua. Dama Galadriel non pronunciò

parola, ma mirò a lungo il suo viso.

«Siedi ora accanto a me, Frodo della Contea!», disse Celeborn.

«Quando saranno giunti tutti parleremo insieme».

Egli salutò cortesemente ognuno dei compagnI, chiamandoli per

nome man mano che entravano. «Benvenuto, Aragorn figlio di Arathorn!»,

disse. «Sono passati trenta e otto anni del mondo esterno

da quando venisti in questa nostra terra; e sono anni che pesano

sulle tue spalle. Ma la fine è vicina, bene o male che sia. Riponi qui

per qualche tempo il tuo fardello!».

«Benvenuto, figlio di Thranduil! Troppo rare son le visite che

riceviamo dai nostri parenti nordici». «Benvenuto, Gimli figlio di Glóin 

E' passato molto tempo da quando vedemmo per l'ultima volta a

 Caras Galadhon i discendenti di Durin. Ma oggi abbiamo rotto la  nostra lunga legge.

 Possa ciò essere un presagio che, malgrado l'odierna oscurità del mondo,

giorni migliori ci attendano e che l'amicizia sia rinnovata tra i

nostri popoli». Gimli s'inchinò profondamente.

Quando tutti gli ospiti furono seduti innanzi a lui, il Signore li

osservò nuovamente. «Qui ve ne sono otto», disse. «Nove dovevano

partire, secondo quanto riferivano i messaggi. Forse vi è stato

qualche cambiamento nelle decisioni, di cui non siamo stati avvertiti.

Elrond è lontano, ci divide una profonda oscurità e durante tutto

l'anno le ombre si sono fatte sempre più lunghe».




«No, non vi furono cambiamenti nelle decisioni», disse Dama
Galadriel, parlando per la prima volta. La sua voce era chiara ed
armoniosa ma più profonda del tono solito di una donna. «Gandalf
il Grigio partì con la Compagnia, ma egli non ha varcato i confini di
questa terra. Diteci dov'egli si trova; grande è il mio desiderio di  parlare nuovamente con lui. Non posso io vederlo da lontano, a  meno ch'egli non passi i cancelli di Lothlórien: è avvolto da grigia
foschia, ed il cammino dei suoi piedi e del suo pensiero sono a
me nascosti». «Ahimè!», disse Aragorn. «Gandalf il Grigio cadde nell'ombra.
Egli rimase a Moria ove soccombette».
A tali parole tutti gli Elfi della sala gridarono dal dolore e dallo
stupore. «Queste sono notizie assai funeste», disse Celeborn,
«le più funeste che siano giunte qui in lunghi anni pieni di sofferenze».

Tratto da "LA COMPAGNIA DELL'ANELLO"di J.R.R.Tolkien

giovedì 18 febbraio 2021

Khazad-dum

 



Gandalf aveva appena finito di pronunciare queste parole, quandosi udì un grande rumore: un bum rombante che pareva giungesse dalle profondità sotto di essi, tremando nella roccia ai loro piedi.Balzarono tutti allarmati verso la porta. Dum, dum, continuava a tuonare, come se immense mani avessero trasformato le caverne stesse di Moria in un gigantesco tamburo. D'un tratto echeggiò uno squillo: un grande corno suonava nel salone, mentre in lontananza si udivano rispondere altri corni, e strilli acuti. Infine il rumore frettoloso di molti piedi.«Stanno venendo!», gridò Legolas.«Non possiamo uscire», disse Gimli.«Intrappolati!», esclamò Gandalf. «Perché ho indugiato? Eccoci qui prigionieri, esattamente come loro, tempo addietro. Ma io non ero qui, allora. Vedremo cosa...».Dum, dum rintronò il tamburo, e le pareti tremarono.«Chiudete le porte e bloccatele con delle pietre!», urlò Aragorn.«Tenete saldi i vostri fagotti; forse avremo ancora modo di aprirci una via di scampo».«No!», disse Gandalf. «Non dobbiamo chiuderci dentro. Tenete socchiusa la porta orientale! Fuggiremo da lì, se ne abbiamo l'occasione».Risuonò un altro squillante richiamo di corno, insieme a delle grida stridule. Dei piedi percorsero correndo il corridoio. La Compagnia sguainò le spade che tintinnarono e rumoreggiarono. Glamdring emanava un pallido bagliore, e Pungolo irradiava luce dalla lama.Boromir poggiò la spalla contro la porta ad ovest.«Aspetta un momento! Non chiuderla ancora!», disse Gandalf.Con un balzo fu al fianco di Boromir, e si eresse in tutta la sua altezza.«Chi viene in questi luoghi a disturbare il riposo di Balin Signore di Moria?», gridò con voce tonante.Ci fu uno scoppio di roche risa, come il precipitare di viscidi sassi in un pozzo; in mezzo al clamore una voce profonda si levò autoritaria. Dum, dum, dum continuavano i tamburi negli  abissi.Con un rapido movimento Gandalf saltò fino alla stretta apertura della porta, puntando innanzi a sé il bastone. Una luce abbagliante illuminò la stanza ed il corridoio. Lo stregone lanciò velocemente un'occhiata fuori della stanza. Le frecce fischiarono e sibilarono lungo il corridoio mentre egli balzava indietro.«Sono Orchetti, e sono una moltitudine», disse. «Alcuni grossi e malvagi; i neri Uruk di Mordor. Per il momento stanno ancora indugiando, ma vi è qualcos'altro fra loro. Un grosso Vagabondo delle caverne, credo, o più di uno. Non vi è scampo da quella parte».«E non vi sarà alcuno scampo, se ci attaccheranno anche dall'altra porta», disse Boromir.«Non si ode ancor nulla dietro di essa», disse Aragorn in ascolto alla porta orientale. «Da questa parte il corridoio si tuffa immediatamente giù per una scala, è chiaro che non conduce nuovamente al salone. Ma non serve a nulla fuggire ciecamente in questa direzione, con gli inseguitori alle calcagna. Non possiamo bloccare la porta; non vi è chiave, la serratura è rotta, e si apre verso l'interno della stanza. Dobbiamo prima far qualcosa per contenere il nemico.Faremo loro temere la Camera di Marzabul!», disse cupo, toccando la lama della sua spada Andùril.Dei passi pesanti si udirono nel corridoio. Boromir si gettò contro la porta e la chiuse spingendola con forza; quindi la bloccò, adoperando come biette delle lame di spada rotte e delle schegge di legno.La Compagnia indietreggiò sino all'altra parte della stanza.Ma non avevano più possibilità di fuggire. Un colpo vibrato contro la porta la fece tremare, ed essa incominciò a socchiudersi lentamente,sospingendo i cunei. Un enorme braccio seguito da una spalla, ricoperto di una scura pelle con squame verdognole, apparve nella fessura che si allargava sempre di più. Un immenso e piatto piede senza dita penetrò di forza strisciando per terra. Fuori cadde un silenzio di morte.Boromir balzò avanti e vibrò con tutte le sue forze un colpo all'immondo braccio; ma la spada trillò e slittò, cadendo dalla sua mano tremante. La lama si era scalfita. D'un tratto, e con grande sua sorpresa, Frodo sentì una collera infocata avvampare nel proprio cuore. «La Contea!», tuonò, e con un salto fu accanto a Boromir, pugnalando con Pungolo l'immondo piede. Si udì un mugghio, ed il piede si trasse indietro spasmodicamente,strappando quasi Pungolo dalla mano di Frodo. Delle gocce nere gocciolavano dalla lama, sprigionando fumo nel toccare terra.Boromir si scaraventò nuovamente contro la porta, chiudendola con violenza.«Un punto per la Contea!», tuonò Aragorn. «Il morso dell'Hobbit è profondo! Hai una buona lama, Frodo figlio di Drogo!».Un colpo risuonò con fracasso contro la porta, seguito da un altro e da altri ancora. Arieti e martelli battevano con forza sempre maggiore. Il battente scricchiolò vacillando, e la fessura si aprì improvvisamente.Delle frecce entrarono sibilando, ma urtando contro la parete caddero in terra inoffensive. Con uno squillo di tromba e dei passi affrettati, uno dopo l'altro gli Orchetti piombarono nella stanza.

Tratto da "Il ponte di Khazad-dûm "La compagnia dell'anello

di JRR Tolkien















sabato 23 gennaio 2021

Arwen & Aragorn

 


















Al centro della tavola, poggiato contro gli 
arazzi appesi alle pareti,vi era un baldacchino sotto il quale sedeva una graziosa dama;tanto rassomigliava a Elrond che Frodo capì che doveva essere legata a lui da stretta parentela. Giovane era, eppur non tanto. La chioma corvina non era sfiorata dalla brina, le  braccia bianche ed il viso limpido erano lisci e vellutati, e miriadi  di stelle risplendevano negli occhi grigi come crepuscolo luminoso; ma il portamento era regale e lo sguardo rivelava riflessione e  saggezza, apprese attraverso anni di esperienza. Sul suo capo era posata una cuffietta di pizzo argenteo ricamata di pietre preziose e scintillanti;  ma la veste di un grigio pallido non aveva altro ornamento che una  cinta di foglie intrecciate con fili d'argento.
Fu così che Frodo vide colei che pochi fra i mortali avevano ammirata: Arwen, figlia di Elrond, che si diceva reincarnasse le sembianze di Lùthien, e che fu chiamata Undómiel, poiché era la Stella del Vespro del suo popolo. Aveva trascorso molti anni nella  terra della famiglia materna, a Lórien al di là dei monti, e da poco era tornata a Gran Burrone nella casa paterna. Ma i fratelli, Elladan ed Elrohir, erano in viaggio, lontani: spesso cavalcavano lungi coi Raminghi del Nord, memori sempre delle sofferenze della loro madre nei covi degli Orchetti.
Frodo si fermò un attimo per voltarsi a guardare. Elrond seduto sulla sua poltrona aveva il viso illuminato  dal fuoco come gli alberi dai raggi estivi. Accanto a lui sedeva Dama Arwen. Frodo vide con sorpresa che Aragorn era in piedi vicino a lei; la sua cappa scura era gettata indietro ed egli pareva vestito dell'armatura elfica, mentre una stella gli risplendeva sul petto. 
Stavano parlando assieme, quando d'un tratto Frodo ebbe l'impressione che Arwen si voltasse verso di lui, e che la luce dei suoi occhi lo investisse, penetrandogli il cuore.

Tratto da "La Compagnia dell'Anello" di J. R. R. Tolkien







  

sabato 25 maggio 2019

Legolas racconta di Nimrodel






«Questo è il Nimrodel!», disse Legolas. «Su questo fiume gli
Elfi Silvani composero molte canzoni tanto tempo fa, e noi del
Nord le cantiamo tuttora, memori dell'arcobaleno sulle cascate, e dei
fiori d'oro galleggianti sulla sua schiuma. Tutto è oscuro ormai, e il
Ponte sul Nimrodel è crollato. Immergerò i miei piedi nelle acque,
che pare guariscano dalla fatica». Avanzò, e dopo aver disceso il ripido
argine fece un passo nel torrente.
 «Seguitemi!», gridò. «L'acqua non è profonda. Proviamo a guadarla!
Sull'altra sponda potremo riposare, ed il rumore dell'acqua che
cade ci porterà forse il sonno, e l'oblio dei dispiaceri».
 Uno dopo l'altro discesero l'argine e seguirono Legolas. Frodo
rimase un istante fermo sul bordo, lasciando che l'acqua gli lambisse
i piedi stanchi. Era fredda, ma pulita al tatto, e man mano che
egli avanzava, sentiva che ogni macchia del viaggio ed ogni ombra
di fatica svaniva dalle sue membra, lavate dalle acque che gli arrivavano
al ginocchio.
Quando furono tutti sull'altra riva, si sedettero e riposarono e
si rifocillarono; Legolas narrò loro le storie di Lothlórien che gli
Elfi del Bosco Atro custodiscono ancora nel loro cuore: storie di
sole e di stelle sui prati lungo il Grande Fiume prima che il mondo
divenisse grigio.
 Infine cadde il silenzio, ed essi udirono la musica della cascata
che scorreva dolcemente nelle ombre. A Frodo parve quasi di percepire
un canto confuso con il suono dell'acqua.
 «Udite la voce di Nimrodel?», domandò Legolas. «Vi canterò
la storia di madamigella Nimrodel, che si chiamava come il fiume accanto al quale viveva tanto tempo fa. E' un grazioso canto nella
nostra lingua silvestre; ma io ve lo farò ascoltare nel Linguaggio
dell'Ovest (Ovestron), come alcuni lo cantano ancora a Gran Burrone».
Con una voce dolce e così fioca che quasi scompariva nel
fruscio delle foglie sulle loro teste, intonò:



 Elfica fanciulla d'un tempo passato,
Stella che brilla al vento,
Bianco il suo mantello e d'oro bordato
E le scarpe grigio argento.
Una stella sulla sua fronte,
Una luce sui suoi capelli,
Il sole brilla tra le fronde
A Lórien dei giorni belli.
Lunghi i capelli, bianca la pelle, chiara la voce
Della libera fanciulla volante
Nell'aria e nel vento come luce veloce,
Come sul tiglio foglia vibrante.
Nel Nimrodel fra le cascate
Dalle acque chiare e spumeggianti
La sua voce come gocce argentate
Squillava tra i flutti scintillanti
Nessuno sa per quali alti valichi
Se all'ombra o al sole ella errando vada,
Perché Nimrodel smarrita in tempi antichi
E persa fu nei monti e nella rugiada.
Nei rifugi oscuri la elfica nave,
Sotto il riparo del monte,
Da giorni e giorni l'aspettava
Nelle ruggenti acque profonde.
Un vento al Nord si levò di notte,
Ululava e gemea,
E trascinò via dai porti le navi a frotte
Nella potente marea.
Pallida venne l'alba e le terre fuggivano.
Grigio svaniva il monte
Oltre le grandi onde che violente muggivano
E spumeggiavano sino all'orizzonte.

Lothlórien 

Amroth le spiagge ed i lidi mirava
Oltre l'onda sollevata,
Odiando la nave infida che l'allontanava
Da Nimrodel la sua adorata.
Egli Re Elfico anticamente era,
Signore d'albero e di radura,
Quando d'oro brillavano i rami in primavera
A Lothlórien la pura.

Lo videro balzare dal timone nel mare
Come la freccia dalla corda tesa,
E nelle acque profonde nuotare
Come il gabbiano sull'onda protesa.
Il vento impetuoso nel fluente capello,
La schiuma lo avvolgeva tutto,
Lungi lo videro possente e bello
Attraversare il flutto.
Ma da ovest non è giunto messaggio
E sul Vicino Lido incantato
Gli Elfi nulla sanno del viaggio
Di Amroth loro re adorato.




 La voce di Legolas tremò e la canzone finì. «Non posso continuare»,
disse. «Ciò che vi ho cantato non è che una parte, ed il
resto più non lo ricordo. Lunga e triste è la storia, che narra come
la sventura si abbattè su Lothlórien, Lórien dei Bocciuoli, quando
i Nani destarono il male nelle montagne».
«Ma i Nani non crearono il male», ribatté Gimli.
 «Non li ho incolpati di ciò; eppure il male venne», rispose accorato
Legolas. «Ed allora molti Elfi della stirpe di Nimrodel
abbandonarono le loro dimore e partirono, e Nimrodel si smarrì lontano,
a sud, nei valichi dei Monti Bianchi; e non giunse alla nave
ove Amroth, l' amato, l'attendeva. Ma durante la primavera, quando
il vento fruscia fra le foglie novelle, si ode ancora l'eco della sua
voce presso le cascate che portano il suo nome. E quando il vento
tira al Sud, la voce di Amroth giunge dal mare; il Nimrodel si
getta nell'Argentaroggia, che gli Elfi chiamano Celebrant, e il Celebrant
a sua volta nel Grande Anduin, il quale sbocca nella Baia
di Belfalas donde gli Elfi di Lórien salparono. Ma Nimrodel ed
Amroth non tornarono mai più a Lórien.
«Si narra che ella si facesse costruire una dimora fra i rami di
un albero che cresceva nei pressi delle cascate; tale era infatti la
consuetudine degli Elfi di Lórien, e forse ancora adesso essi vivono
sugli alberi. Per codesta ragione venivano chiamati i Galadhrim,
la Gente degli Alberi. Nel profondo della loro foresta gli alberi
sono molto grandi. I popoli silvani non scavavano la terra come i
Nani, e non costruivano baluardi prima che venisse l'Ombra».
Tratto da "La Compagnia dell'anello" di J.R.R Tolkien


sabato 28 luglio 2018

Ombromanto




Poi anche Ombromanto avrà bisogno di riposo, in qualche piccola valle fra i colli: a Edoras, spero. Dormi, se ci riesci! Può darsi che vedrai il primo barlume dell'alba sul dorato tetto della casa di Eorl. E due giorni dopo mirerai l'ombra viola del Monte Mindolluin, e le mura della torre di Denethor bianche nel mattino. «Coraggio, Ombromanto! Corri, cuor di leone, come non hai mai corso sinora! Siamo giunti nelle terre della tua infanzia, ove tu conosci ogni pietra. Corri adesso! La nostra speranza è la tua velocità!». Ombromanto scrollò il capo e mandò un possente nitrito, come spinto al combattimento dallo squillo di una tromba. Poi balzò avanti. Il fuoco si sprigionava dai suoi piedi, la notte volava intorno a lui. Mentre il sonno lo intorpidiva lentamente, Pipino ebbe una strana sensazione: Gandalf e lui erano immobili come pietre, seduti sulla statua di un cavallo al galoppo, e sotto di loro il mondo fuggiva via in mezzo a un gran fragore di vento.

Tratto da "Le due Torri" di J.R.R Tolkien


Si riavvolse nel vecchio manto a brandelli e si mise in marcia.
Lo seguirono rapidamente ai piedi dell'alta parete rocciosa, attraverso
un tratto di foresta, e poi nuovamente lungo le rive dell'Entalluvio.
Non dissero altro finché non si ritrovarono sull'erba oltre i
confini di Fangorn. Non vi era traccia dei loro cavalli.
 «Non sono tornati», disse Legolas. «Sarà un cammino assai
faticoso!».
 «Io non camminerò. Ho fretta», disse Gandalf. Alzò la testa
e mandò un lungo fischio dalla nota così chiara e acuta, che gli altri
rimasero stupefatti di udire un tale suono sibilare fra le vecchie
labbra barbute. Fischiò tre volte; allora, fioco e distante, parve
loro di sentire il nitrito di un cavallo giungere dalle praterie col
vento d'oriente. Attesero incuriositi. Il rumore di zoccoli, che sulle
prime non era che un vibrare del terreno percepibile soltanto da
Aragorn disteso sull'erba, crebbe velocemente e divenne un rapido
scalpitio.
«Vi è più di un cavallo in arrivo», disse Aragorn.
 «Naturalmente», ribatté Gandalf. «Siamo un carico troppo ingente
per un destriero solo».
 «Sono tre», disse Legolas guardando fisso la pianura. «Guardate
come corrono! C'è Hasufel, e al suo fianco il mio amico Arod!
Ma ne scorgo uno cavalcare innanzi: un cavallo assai grande. Mai
ne ho veduto uno simile».
 «E mai più lo vedrai», disse Gandalf. «Quello è Ombromanto,
il capo dei Mearas, principi dei cavalli, e nemmeno Théoden, Re
di Rohan, conobbe mai un destriero così bello. Miratelo scintillare
come argento e galoppare liscio come un fiume che scorre veloce!
Viene per me: è il cavallo del Cavaliere Bianco. Combatteremo
insieme».
Mentre il vecchio stregone parlava, il grande destriero salì di volata
 il lungo pendio innanzi a loro; il suo manto brillava e la
criniera ondeggiava al vento veloce. Gli altri due lo seguivano, ma
alquanto lontani. Non appena Ombromanto scorse Gandalf, rallentò
l'andatura e nitrì con voce potente; poi, dopo un breve tratto,
curvò la fiera testa e strofinò le grandi narici contro il collo del
vecchio stregone.
Gandalf lo accarezzò. «Siamo assai distanti da Gran Burrone,
amico mio», disse; «ma tu sei saggio e veloce e arrivi nel momento
del bisogno. Galoppiamo ora via insieme, senza più separarci in
questo mondo!».
 Poco dopo giunsero gli altri cavalli e si allinearono tranquilli in
attesa d'ordini. «Dobbiamo recarci subito a Meduseld, al palazzo
del vostro padrone, Théoden», disse Gandalf rivolgendosi a loro
con tono grave. Essi chinarono il capo. «Il tempo preme; perciò,
col vostro permesso, amici, noi vi monteremo in groppa. Vi prego
di galoppare quanto più rapidi potete. Hasufel porterà Aragorn, ed
Arod Legolas. Porrò Gimli innanzi a me e Ombromanto graziosamente
ci reggerà ambedue. Adesso ci fermeremo soltanto per bere
un sorso».
 «Ora mi spiego parte dell'enigma di ieri sera», disse Legolas
saltando leggero sulla groppa di Arod. «I cavalli, non so se fuggiti
per la paura o qualche altro motivo, incontrarono poi Ombromanto,
il loro capo, e lo salutarono con gioia. Sapevi che si trovava nei
dintorni, Gandalf?».
 «Sì, lo sapevo», rispose lo stregone. «Diressi i miei pensieri
su di lui, pregandolo di affrettarsi; e così fece, poiché ieri si trovava
all'estremo sud di questo paese. Possa ora riportarmi indietro altrettanto presto!».
Gandalf disse qualcosa a Ombromanto, e il cavallo si avviò con
una buona andatura che anche gli altri cavalli però riuscivano a
mantenere. Dopo un breve tratto voltò bruscamente, e scegliendo
un punto ove gli argini erano più bassi, guadò il fiume dirigendosi
poi dritto a sud attraverso una contrada piatta, spoglia e vasta. Il
vento correva come onde grigie su interminabili miglia di terra
erbosa. Non vi erano tracce di strade né sentieri, ma Ombromanto
non si arrestò e non esitò mai.

Tratto da "Le due Torri" di J.R.R Tolkien

sabato 2 giugno 2018

Granpasso


Granpasso-Viggo Mortensen
                                        GRAMPASSO 

D'un tratto Frodo notò un individuo dall'aria strana, segnato
dalle intemperie, che sedeva in ombra vicino al muro ascoltando 
attentamente la loro conversazione. Aveva un grosso boccale di metallo davanti a sé e fumava una pipa dal lungo cannello intagliato stranamente. Teneva le gambe distese e portava degli stivali alti di una pelle morbida e di ottima fattura, ma ormai alquanto logori e ricoperti di fango. Un mantello di pesante panno verde scuro scolorito dal tempo lo avviluppava interamente e, malgrado il calore della stanza, egli portava un cappuccio che gli faceva ombra al volto: ma i suoi occhi che osservavano gli Hobbit brillavano nella mezza oscurità.
 «Chi è quello?», chiese Frodo, quando ebbe l'occasione di sussurrare all'orecchio del signor Cactaceo. «Non mi pare che ci sia stato presentato».
 «Quello?», disse l'oste a bassa voce, lanciandogli un'occhiata
senza però voltare la testa. «Non saprei dire esattamente. E' uno di
quelli che vanno vagando, e che noi chiamiamo Raminghi. E' un tipo taciturno, ma se ci si mette, racconta storie veramente uniche. 
Scompare per un mese, un anno, e poi spunta di nuovo all'improvviso. La scorsa primavera l'ho visto un bel PO' di volte, ma di questi tempi si fa vivo molto più di rado. Come si chiama veramente non l'ho mai saputo, ma da queste parti tutti lo chiamano Grampasso. Cammina velocissimo con quelle sue gambe lunghe, e non dice mai a nessuno il perché di tanta fretta. Ma qui da noi si usa dire che l'Est e l'Ovest non si spiegano, parlando dei Raminghi e, chiedo  scusa, della gente della Contea. Strano che mi abbiate chiesto di lui».
Ma in quel momento il signor Cactaceo fu chiamato altrove e la sua ultima osservazione rimase senza risposta.
 Frodo si accorse che adesso Grampasso lo stava guardando, come
se avesse sentito o indovinato ciò che era stato detto sul suo
conto. A un certo punto, con un cenno del capo e della mano, invitò Frodo ad andarsi a sedere accanto a lui. Mentre questi si avvicinava, egli si tolse il cappuccio, scoprendo una capigliatura scura e irsuta con qua e là qualche macchia grigia, e un viso pallido e severo ove brillavano due occhi grigi e penetranti.
«Mi chiamano Grampasso», disse a bassa voce. «Son molto
lieto di conoscervi, signor... Sottocolle, se il vecchio Cactaceo ha
capito bene il vostro nome».
«L'ha capito benissimo», disse freddamente Frodo. Lo sguardo
di quegli occhi penetranti lo metteva molto a disagio.
«Ebbene, signor Sottocolle», disse Grampasso, «se fossi in voi, direi  ai vostri giovani amici di frenare la lingua. La birra, il
camino e gli incontri casuali fanno sempre piacere, ma, come dire..., qui non siamo nella Contea. C'è gente strana in giro. Voi penserete
che non tocca a me dirlo», aggiunse con una smorfia, notando 
l'occhiata carica di significato. «E ci sono stati dei tipi ancor più misteriosi in viaggio attraverso Brea, questi ultimi tempi», proseguì, osservando da vicino il suo interlocutore.
 Frodo lo guardò senza aprir bocca e Grampasso non disse più
niente. La sua attenzione sembrò improvvisamente concentrarsi su
Pipino. Allarmatissimo, Frodo si rese conto che il ridicolo giovane
Tuc, incoraggiato dal successo riscosso dalla sua storia sul grasso
Sindaco di Pietraforata, si era addirittura lanciato in un'evocazio
ne in chiave comica della festa d'addio di Bilbo. Stava già facendo
un'imitazione del discorso e si avvicinava alla stupefacente 
scomparsa.Frodo era urtato. La storia era del tutto innocua per la maggior parte degli Hobbit locali, senz'alcun dubbio; soltanto una vicenda ridicola di quella gente ridicola al di là del Fiume; ma alcuni (il vecchio Cactaceo, per esempio) non erano del tutto ignari ed avevano
probabilmente avuto sentore, molto tempo addietro, della scomparsa di Bilbo. La storia avrebbe riportato alla loro mente il nome
Baggins, specialmente poi se vi erano state delle inchieste e delle 

ricerche,lì a Brea, di recente.Frodo si agitava irrequieto, incerto sul da  farsi. Pipino era evidentemente molto lusingato dell'attenzione che riusciva a concentrare e pareva del tutto dimentico del pericolo che li minacciava.

Frodo ebbe improvvisamente paura che gli saltasse persino in mente di menzionare l'Anello: sarebbe stata la catastrofe.
 «Vedete di far qualcosa, e subito!», gli sussurrò Grampasso in
un orecchio.
 Frodo saltò in piedi e con un balzo fu ritto su di un tavolo,
mettendosi a parlare. L'attenzione del pubblico di Pipino fu distolta; qualche Hobbit guardò Frodo ridendo e battendo le mani, persuaso che il signor Sottocolle avesse alzato un po' troppo il gomito per quella sera.
 Frodo si sentì improvvisamente molto sciocco e ridicolo, e si
mise a giocherellare con ciò che aveva in tasca: era diventata ormai una sua abitudine ogni qual volta faceva un discorso. Sentì l'Anello attaccato alla catenella, ed il desiderio folle di infilarselo al dito e sparire dalla stanza, uscendo da quella situazione imbarazzante, s'impadronì di lui. 






Tratto da "Il Signore degli Anelli"
La Compagnia dell'Anello"di J.R.R Tolkien